
Grande Figura Reclinata – Mimmo Paladino, Chiostro di S. Maria in Solario, Museo di Santa Giulia, Brescia. 2017
Su "Ouverture", la mostra di Mimmo Paladino a Brescia
La luce fonde.
Dalle lamine dorate, come una lava dalla dolce incandescenza, si riversa sugli spalti del teatro, illumina il passato da cui nasce.
Sono gli Specchi Ustori che riflettono le vestigia del Teatro Romano. Enormi scudi bronzei dalle insegne affastellate, disseminate con un ordine criptato come in certi lavori di Magritte. Numeri, teste, volatili, strutture schizzate o immaginate, ingranaggi solitari. Nulla, proprio nulla di veramente marziale, a dispetto del minaccioso nome.

Pure, la pace e la guerra, sono uno dei tratti più significativi che legano insieme, con una traccia tanto dissimulata quanto irresistibile, tutta l’estesa costellazione di sculture e opere d’arte che Mimmo Paladino ha delicatamente adagiato, addentrandovisi con rispetto e stupore, tra gli strati profondi della storia bresciana, risalendo dalle pagine più antiche e gloriose fino ai lasciti della modernità violenta e brutale del nazifascismo, laddove è collassata definitivamente l’idea di progresso, di continuo e inarrestabile miglioramento della condizione umana.
Dal Monastero di Santa Giulia a San Salvatore, nel Tempio Capitolino, dall’oriente della città, spostandosi lentamente verso occidente, passando nel Duomo Vecchio, fino ad arrivare nel vuoto gelido di quella larga plaga senza odore, senza colore – sala d’aspetto enorme dove un’anestesia segreta dissolve ogni senso, ogni sia pure flebile sussulto – chiamata piazza della Vittoria, Paladino dissemina i suoi corpi denudati e screziati, lance rotte, cavalieri disarcionati, teste rotolate su lastrici abissali, sudari maculati da segni di necrosi, di morte sofferente nel gorgoglio soffocante dell’abbandono e della solitudine.
Nelle stanze di Santa Giulia, nelle corti, negli spazi espositivi e museali, Paladino entra mimetizzandosi o attirando irresistibilmente l’attenzione attorno alle sue sculture, sempre nel segno del dialogo con i luoghi nei quali si affacciano le sue opere, nell’ammirata iterazione con le meraviglie che le circondano.
Ci sono alcuni segni che ritornano e che raccontano una visione del mondo, o forse solo l’intravvedimento di un altro mondo.
Il piccolo cavallo matto, al centro di una Domus dell’Ortaglia, il cui rosso ammonitico, la marna o la dolomia, fanno sanguinare dalle zampe spezzate, montato da un cavaliere indifeso semicoperto da uno scudo improbabile, fa pensare a quella litania, quell’autistico e disperante richiamo, che Werner Herzog mise tra le labbra del suo Kaspar Hauser: “Io, grande cavaliere, come mio padre“.
I cavalieri, nei lavori di Paladino, non montano più i loro bai, delle battaglie vinte non vi sono più tracce, di quelle perse sono sparse le macerie, gli elmi spezzati, trapassati dalle lance, rosi dalla ruggine, dalla calce, impastati di polvere e sangue.
I raccolti e intensi Dormienti, adagiati nel piano più basso di Santa Giulia, tra i reperti preistorici della nostra città, svelano lentamente, toccando il registro della commozione, lo scempio dell’urna, del sepolcro violato, maciullato anch’esso dalla furia della guerra. Non riposano in pace. Le schegge di coppo, poveri laterizi fracassati e taglienti, non riparano né anime né membra. Non c’è traccia d’onore, nulla di simile al rispetto, solo il calco insaziabile, ma perennemente vuoto, della brutalità.
C’e un’eloquente scultura distesa nel meraviglioso e assorto Coro delle Monache: i cavalieri e i lottatori sono trasfigurati in un cristo magro, smisurato e senza nome, inchiodato a una croce consunta e assottigliata crollata a terra da secoli, appiattita su un freddo selciato; uomini calpestati, vilipesi, cosa senza alcun valore.
Il tufo prevale non casualmente nella coorte di Testimoni che ci interroga, come un coro muto, tra il colonnato del Tempio Capitolino, una roccia vulcanica stabile e forte, sia pure agglomerato di lapilli pomicei, di strati interminabili di cenere. Tra i loro sguardi fa capolino la memoria terribile di costati nudi, esposti a innumerevoli tempeste, ma i loro ventri conservano e custodiscono la vita che verrà; i toraci – scavati nel giallo e nell’ocra, torti, graffiati, attraversati da sottili vene indacoplumbee – sono dischiusi, palpitanti di storie, di sguardi che sono stati o forse avrebbero potuto essere; le mani sono aperte, pronte ad accogliere ogni nuovo venuto, a dare voce, da quel Pronao sacro, ad ogni possible rinascita, a rinnovata speranza.

Riprendendo il percorso verso ovest l’artista campano si ferma nel Duomo Vecchio con un’opera maestosa, tripartita, di un liquido e rappreso scarlatto. In una delle tele uno strappo netto, nel drappo dipinto, rivela uno squarcio dorato. Paladino dà nome Stabat Mater a questo lavoro, il canto straziante, la preghiera dedicata a Maria per la Passione e la crocifissione del figlio offre un’altra prospettiva al suo sguardo sul mondo: dal dolore di una madre, dalle tenebre della disperazione di una morte violenta e assassina può aprirsi uno spiraglio illuminato, una finestra sull’amore e sulla compassione, fondamento autentico delle relazioni umane, logos irriducibile da qualunque prepotenza, da qualsiasi volontà sopraffatoria. Chissà se l’artista nel concepire questo lavoro si è ispirato all’immortale composizione di Giovan Battista Pergolesi che gli fu commissionata proprio dai “Cavalieri della Vergine dei dolori della Confraternita di San Luigi al Palazzo”, in quel di Napoli che lo rese celebre al mondo, nel 1734.
Gli agglomerati multipiramidali, solidi enormi o piccolissimi che Paladino pone spesso a contrappunto delle sue sculture, sono stelle rassicuranti, indicatori di una strada, o granate minacciose con il loro raccolto di capi mozzati, di esplosioni avvenute o incombenti: la barriera che separa il bene dal male è un tremolante foglio di carta velina. Condizioni ben rappresentate in piazza della Vittoria. È in questo spazio che l’artista sannita compie l’operazione più raffinata dando luogo quasi a un miracolo.
Le sue sculture riescono ad entrare in relazione con le strutture di Piacentini usando per molti tratti una cifra condivisa, i colori, le dimensioni, l’assertività, le simmetrie. Il dialogo, che diventa subito confronto aspro, riesce però a raggiungere un risultato straordinario, insufflare vita alla piazza, con degli accenti quasi gioiosi, senza nascondere il livello glaciale, propagandistico e mistificatorio dell’operazione di regime, sostenuta da Mussolini in persona, emersa sopra l’iceberg di brutalità e di devastazione fatto pagare al quartiere delle Pescherie con uno sventramento inaudito di una parte significativa del centro storico cittadino.

Sant’Elmo, lo Scriba, il grande Zenith nei tramonti dalla luce tagliente, durante dopopioggia ventosi e ferventi, riflettono al cielo una piazza fantasmatica e mite, dallo sguardo fanciullesco e benevolente, nella quale i ritagli e gli squadri di regime si tramutano come d’incanto in un fondale aggraziato e inoffensivo. Assieme all’Anello, alla Stella e alla Stele non vestono la piazza, ne cambiano segno e percezione.
La Stele, in particolare, racchiude in sé tutta la densa vicenda di questa parte della città. Nel blocco di marmo marquiña, posto sulla fontana del progetto piacentiniano in luogo dell’«Era Fascista» – la statua di Dazzi che doveva rappresentare l’epopea (nefasta) di quella stagione – la storia viene riletta e trasfigurata attraverso un’operazione metamorfica e simbolica. Il marmo di Carrara del Bigio si assottiglia in venature sottili, il bianco pallore mortifero del colosso di regime si capovolge nel nero del lutto, del dolore per la sofferenza inflitta ad un popolo da un potere violento e inumano. Le forme dazziane, tanto impettite e ridicole quanto prepotenti e sbeffeggianti, si agglomerano nel lavoro di Paladino come in un processo di addensamento e compressione di un buco nero della storia, dal quale emergono segni appena accennati. Il movimento tracotante e bellicoso agitato dal filone futurista guerrafondaio è come accartocciato su se stesso nella Stele, la stessa forza primigenia del dinamismo boccioniano, la leggerezza del ritmo e della velocità di Balla vengono colti nella distorsione che li ha risucchiati nel filone sbagliato di un’epoca dominata dalla violenza e da una hybris cieca e marcescente sfociata nel dramma pagato da milioni di donne e di uomini.
Dopo questa geniale trasfigurazione non credo possa essere più immaginabile tornare alla piazza della Vittoria che abbiamo conosciuto prima del 6 maggio del 2017.

La percezione dell’approccio di Paladino alle sue opere, il suo sguardo sul mondo, successivamente alla visione del «Quijote», lungometraggio di una grande, autentica, bellezza, ha rischiarato meglio anche le scelte fatte a Brescia. Il film, girato per buona parte da Paladino nel Sannio, la sua terra natìa, è stato proiettato nell’ambito delle iniziative a corollario del progetto Brixia Contemporary di cui la sua Ouverture è stato l’avvio. Gli eccellenti Lucio Dalla e Peppe Servillo danno corpo a un Sancho Panza e a un Don Chisciotte increduli che la contemporaneità, passati altri cinque secoli, sia andata così oltre l’annullamento di se stessa sprofondando indefinitamente nella “follia dell’uomo” . Stralunati, il cavaliere errante e lo scudiero, si aggirano tra relitti di fabbriche mai nate, discariche abbandonate e paesaggi agresti immacolati, crepuscoli illuminati dall’argento e dal blu della volta celeste.
Già cinquecento anni fa il genio di Cervantes ci ha donato queste parole pregne della lungimiranza del veggente: “Benedetti quei fortunati secoli cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell’inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo tolga la vita a un prode cavaliere, e che senza saper né come né da dove, nel pieno del vigore e dell’impeto che anima e accende i forti petti, arrivi una palla sbandata (sparata da chi forse fuggì, al bagliore di fuoco prodotto dalla maledetta macchina), e recida e dia fine in un istante ai sentimenti e alla vita d’uno che avrebbe meritato di averla per lunghi secoli. E quindi, considerando ciò, sto per dire che mi duole nell’anima d’aver abbracciato questa professione di cavaliere errante in un’età così odiosa qual è quella che oggi viviamo; perché sebbene a me non ci sia pericolo che faccia paura, ciò nonostante, mi esaspera il pensare che della polvere e del piombo abbiano a negarmi la possibilità di rendermi noto e famoso per il valore del mio braccio e il filo della mia spada, per tutto quanto il mondo conosciuto. Ma faccia il cielo ciò che crederà, che se riesco nel mio proposito, sarò maggiormente stimato, per aver affrontato ben maggiori pericoli che non quelli ai quali si esposero i cavalieri erranti dei passati secoli“.
Fin quando la guerra, la tecnica nauseabonda al servizio della violenza, della sopraffazione e della prepotenza avranno legittimità sul pianeta nulla si potrà salvare dal gorgo della disumanità.

Foto di Pasquale Palmieri
Non ricordo un’operazione così importante per la città negli ultimi lustri, e nemmeno sono sicuro di quanti abbiano veramente colto il dirompente e profondo significato di questa rappresentazione.
Mimmo Paladino ci ha regalato opere che hanno un valore grande di per sé ma nel riverbero reciproco con il grande patrimonio storico e museale bresciano, avviano un rimando di luci, moltiplicano i silenzi, i suoni, le forme di ogni espressione, di ogni mistero, aprendoci ad una dimensione nuova e sconosciuta della città.
Brescia dopo questa straordinaria esperienza è una città diversa. Una nuova dolcezza, un attonito stupore, promana dalle sue vestigia, dalle sue piazze, dalle sue strade. E già si affaccia nel suo futuro.